Una formula che si ripete per un successo invidiabile |
Come hanno fatto, lì ad Hollywood, a rivitalizzare la figura dell’investigatore di Baker Street, mai definitivamente scomparso nell’immaginario collettivo (soprattutto inglese) ma recentemente apprezzato soltanto in chiave moderna nel telefilm Sherlock? E perché poi questo sequel -così come il primo film- è riuscito a raggiungere un tale incasso al box office? Domanda scontata, a meno che non conosciate l’attore/comico protagonista del film: Robert Downey Jr.. Tra Iron man 2 e The Avengers, l’uomo di ferro (il ruolo che gli ha garantito il riscatto in una carriera attoriale ostentata da uso di droga e alcool) ci ha presentato uno Sherlock Holmes fotocopia di Tony Stark e di se stesso, uomo (apparentemente) sicuro, prestigiatore psicologico e ancor più abile rispetto al primo film nel prevedere, colpire, scegliere il momento giusto per agire, trovare l’indizio là dove nessuno si ricorda di guardare, rovinare una luna di miele al povero Watson (Jude Law) e sventare una minaccia globale.
Con l’eccellente primo capitolo il regista Guy Ritchie aveva dato prova di aver capito perfettamente la direzione verso cui doveva andare il suo film e, pur non essendo un autore di primissima fascia, ha garantito con questo sequel la longevità del suo personaggio. La formula messa in atto è per la seconda volta -passatemi il termine forse esagerato- perfetta, perché permette al regista di far uso di uno stile comunque virtuoso (o quasi) riuscendo al contempo a non togliere spazio a Downey Jr e alla storia stessa. Mentre però il primo film sembrava non poter avere un limite di gradimento (ad oggi è il film con maggiori incassi in una vigilia di Natale), spingendosi ben oltre le aspettative di molti, qui alcune forzature vengono a galla. Tecnicamente l’uso massiccio che il regista fa dei ralenti in cui vediamo Holmes prevedere l’agire dei suoi contendenti risulta anche in parte suggestivo, ma queste sequenze finiscono quasi sempre per ripetersi fino all’esasperazione, facendo calare il ritmo e immergendo lo spettatore in una specie d’azione da videogioco in alta definizione. D’altro canto Gioco di ombre se lo può permettere, visto che comunque vi sono scene che vivono a ritmi insostenibili sia di dialogo (scambi accesi sul fronte Watson/Sherlock) sia di azione vera e propria. Ma ciò che realmente alla lunga stufa non è l’azione, ma la maniacale ricerca del dettaglio, del minimo indizio capace di far scoppiare il finimondo all’istante capovolgendo ripetutamente il presunto corso degli eventi ad ogni spiegazione del fin troppo perspicace Holmes, che non rinuncia a scatenare una bagarre dopo l’altra.
Come il suo protagonista, 2 è ancora esuberante e sicuro di sé, sempre conscio delle richieste di un pubblico alla ricerca di un intrattenimento originale – se in questa categoria inseriamo anche le rivisitazioni in chiave comica di personaggi affermati- e che sappia far ridere. E, almeno in questo, Sherlock Holmes è stato un modello da seguire.
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