MAN ON THE MOON – LA RECENSIONE ★★★☆☆

420061-jim-carrey-man-on-the-moon-kaufmanFilm ben studiato, tra un inno alla libertà e qualche critica ad Hollywood |

5105_bigSe mai volesse, Jim Carrey potrebbe essere eletto Presidente degli Stati Uniti tanta è l’empatia che le folle provano ad ogni sua nuova interpretazione. Milos Forman si affida ad un attore sicuramente considerato inferiore rispetto ai vari Nicholson e Hulce, con cui aveva precedentemente lavorato, mentre si tiene stretto un fedele Danny De Vito, nel formare il cast del film che racconta la storia toccante e divertente di Andy Kaufman, indubbiamente il comico più originale mai vissuto, spentosi a soli 35 anni per via di un tumore ai polmoni che nè medici nè tanto meno filosofie trascendentali riuscirono a guarire. Non amava essere definito un comico, nonostante sul palcoscenico avesse l’innata capacita di riscuotere successo: lui era un genio, forse un pazzo o un idiota, ma di certo (ed è quello che importa per Forman) era uno spirito libero, slegato da qualsiasi pattern immaginabile. La sua stravagante attività è documentata in Man On The Moon.

Ad ogni livello a cui si guarda al film, il confronto con altri capolavori di Forman diventa sensato, addirittura obbligato e stimolante per riflettere su come una biografia possa assumere i tratti personali dell’autore che la porta sul grande schermo. Come un noto Nicholson cercava di risvegliare i pazienti in un manicomio, Carrey è un comico stravagante che cerca in ogni modo di cambiare la società in cui vive servendosi di un unico mezzo: l’imprevedibilità. Se all’apparenza la missione del protagonista sembra un semplice tentativo di intrattenere se stesso, scopriamo poi l’incombere di un’esistenza fragile e complessa che ci fa presto dimenticare le uscite più recenti dell’attore, da Yes Man a I pinguini di Mr.Popper. Quest’ultimo punto è fondamentale per inquadrare il film: il protagonista non ci appare come il personaggio più esilarante mai vissuto, bensì come un uomo capace di fare ciò che voleva e non ciò che gli veniva imposto.

Il film non pretende in alcun modo di intrattenere con dialoghi sferzanti o espedienti simili, ma cerca di comunicarci qualcosa sul piano della riflessione. In effetti Kaufman poteva risultare antipatico (come un certo Amadeus), addirittura ridicolo nel scimmiottare un wrestler maschilista, ma Forman è più impegnato a tracciare un confine invisibile tra genialità e libertà piuttosto che a cercare la risata del pubblico. È qui che apparentemente il film scade, non riuscendo a definire appieno una figura che è e rimane indecifrabile. In realtà, l’impostazione del film è giustificabile alla luce del resto della filmografia di Forman. Il film parla anche, con una metafora sottile ma non forzata, della dualità, della realtà e in particolare di che cosa significhi essere reale. E dell’identità dietro alla celebrità. E della religione. E del business. E degli studios. E della serietà. Sì, c’è tutto questo e molto altro, compresa la possibile critica ad una Hollywood incapace di riconoscere l’originalità di un prodotto.

La sceneggiatura non ha sbavature, riuscendo con un abile gioco di prestigio iniziale ad avvertirci che quello che stiamo per vedere è un film assolutamente anticonvenzionale. I toni si fanno meno freddi rispetto ad Amadeus, ma l’esito permane nel suo stato di elevato pessimismo. Perché se Nicholson lottava contro un meccanismo forte ma limitato dai cancelli di un manicomio, il personaggio di Carrey combatte contro la società stessa. Una società che Forman ha sempre condannato.

E a voi è piaciuto il film? Aggiungete un commento!

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