Con una ritrovata verve artistica, Ridley Scott regala suggestioni visive in un film che però rimanda il contatto con Alien |
Catturato dalla prospettiva di ritornare al genere che lo ha consacrato nell’Olimpo del grande cinema più di tre decadi fa, Ridley Scott attinge nuovamente all’universo cinematico di Alien con l’idea di tornare alle origini della saga narrandoci gli avvenimenti che hanno preceduto le note avventure di Ellen Ripley con lo xenomorfo.
Prometheus (che prende il titolo dal nome della meravigliosa nave spaziale che ambienta una buona parte della vicenda) vi racconta della spedizione spaziale della dottoressa Shaw (Naomi Rapace), studiosa che ha come fine la ricerca dei nostri creatori: missione che ricalca in buona parte la trama del suo predecessore. Non mancheranno quindi i seguenti elementi: lo spazio buio e una luna inospitale nei radar ad attenderla; il risveglio; l’atterraggio; l’esplorazione; i guai; la creatura; la morte.
Narrativamente gran parte del film- nonostante i cunicoli claustrofobici della Nostromo siano sostituiti dal mausoleo alieno che i nostri esplorano al di fuori della nave- si svolge all’interno della Prometheus, un realistico condensato di effetti speciali e teatro di almeno una scena memorabile: l’(auto)operazione chirurgica a cui la Dottoressa Shaw si sottopone per estrarre il face-hugger dal suo stesso grembo. Non è propriamente un’idea innovativa- la saga di Alien ci ha sempre parlato, in qualche modo, di maternità e di femminilità- ma è un filo conduttore che continua ad attrarre nel suo drammatico e sconcertante impatto. A proposito di face-hugger (la piovra, per i neofiti), H.R. Giger, il famoso designer delle creature originali, ha qui ampliato ancora il suo repertorio, che vede aggiungersi gli Ingegneri (non in CGI, come alcuni hanno sospettato, ma interpretati da veri e propri attori truccati in stile omino Michelin) e un mega facehugger, entrambi mai apparsi nei film precedenti. Ma dimenticatevi dei vecchi nemici (xenomorfi e quant’altro) e degli Ingegneri di questo capitolo: è David (un raggelante Michael Fassbender) il vero mostro, un androide suo malgrado progettato dal magnate Peter Weiland (Guy Pearce) per conseguire un obiettivo che potrebbe necessitare dell’aiuto di ignare cavie umane per essere portato a termine. Fassbender, in prospettiva tra i più grandi attori della sua generazione, ha saputo dar vita- se di vita di tratta- ad un automa dalle movenze ingessate, rendendosi perfettamente capace di descrivere l’equilibrio precario tra la serie di algoritmi che ne compongono la struttura mentale e la sua volontà di elevarsi/abbassarsi al livello umano. Un equilibrio che sembra poter esplodere ad ogni minima increspatura della fronte dell’attore. Tuttavia il ruolo di David, benché sempre centrale nella narrazione, è paradossalmente più importante per Alien che per Prometheus: è lui la chiave che collega i due film e dipende in gran parte da lui se Sigourney Weaver ha rischiato la vita nello spazio.
Ridley Scott ha infatti cercato di spiegare nel migliori dei modi la relazione che unisce i suoi due film nel (pre)finale, cercando di dirigere lo spaccato di sceneggiatura di Damon Lindelof (il cui nome viene immediatamente inserito nella lista nera dei fan del film per l’incapacità di giungere ad una conclusione soddisfacente) con la capacità visionaria che sta ancora cercando di recuperare dalle sue prime esperienze filmiche. Così il suo mondo lunare si materializza in una cornice suggestiva dove i “furono relitti alieni” di Alien sono oggi astronavi capaci di volare, e le creature sono rese con effetti realistici giustamente apprezzati dagli esperti del settore o dai semplici appassionati.
Tuttavia rimane un gap da colmare, quello che separa irrimediabilmente l’innegabile qualità di regia e casting e quella di una sceneggiatura ricca di contenuti ma piatta e inconcludente: ritmo solo a tratti carico di tensione da fantahorror, non molte scene veramente indimenticabili e pochi colpi di scena efficaci. Ecco che allora bastano queste premesse per non illuderci: Prometheus non può competere con Alien non tanto per il ritmo altalenante e per il livello di immersione che non raggiunge quello dell’originale, ma per una sceneggiatura povera, utile soltanto a darci un assaggio di quello che potrebbe essere ma ancora non è il cosmo fantastico ideato dal cineasta. Ci dà risposte anche soddisfacenti, il regista, ma pone domande che pretendono un’espansione narrativa che, nonostante una durata piuttosto consistente, il film non riesce a sviluppare. Spunti, tanti spunti, quelli che scorrono nelle due ore di film; ma che tuttavia rimangono in stand-by, come appunti in attesa di una definitiva stesura. Dove vuole portarci con questa scelta narrativa Damon Lindelof? La risposta è al sequel, banalmente. Non essendoci però attualmente un progetto che vada oltre le voci di corridoio, il b-movie di Scott (che di b-movie, si guardi al budget, ha davvero poco) rischia di rimanere schiacciato dalle stesse leggi di un’industria cinematografica che, incapace di guardare oltre il profitto immediato, non ha pianificato sufficientemente bene le uscite di un eventuale seguito.
Presto comunque qualcuno dovrà tornare nello spazio (altro non fosse che per esigenze degli Studios) per raccontarci quello che Lindelof non ha saputo dirci, e quel qualcuno tutti sperano sia ancora una volta Ridley Scott, che con una rinnovata verve artistica sembra finalmente pronto a tornare alle origini del suo percorso cinematografico. Con un bravo sceneggiatore, ma sempre con la Rapace e con la testa robotica di Fassbender, se possibile. Ancora gli xenomorfi dell’originale. Ancora paura. Ancora spettacolo visionario. Ancora un film a 5 stelle.